L’impulso curativo dell’amore…

Mi portavano in sedia a rotelle lungo i corridoi dell’ospedale provinciale.

— Dove? – chiese un’infermiera all’altra.

– Forse non nella stanza singola, ma in quella comune? – Mi preoccupai.

— Perché in quella comune, se c’è la possibilità di una singola?

Le due infermiere mi guardarono con un tale sincero dispiacere che ne rimasi esterrefatta. Solo più tardi scoprii che nelle stanze singole ricoveravano i moribondi, per non farli vedere agli altri.

— Il medico ha detto stanza singola, – ripeté un’infermiera.

All’epoca non sapevo ancora cosa significasse e mi rasserenai. Quando mi ritrovai finalmente a letto, provai un senso di pace profonda solo al pensiero di non dover più andare da nessuna parte, di non dovere più niente a nessuno, di non avere più alcuna responsabilità.

Sentii un curioso distacco dal mondo circostante: non mi importava davvero nulla di ciò che accadeva. Niente e nessuno mi interessava. Avevo conquistato il diritto al riposo. E questo era meraviglioso.

Rimasi sola con me stessa, con la mia anima, con la mia vita. Solo Io e io. Via i problemi, via il trambusto, via le questioni urgenti. Tutta quella corsa al contingente sembrava infinitamente futile di fronte all’Eternità, alla Vita e alla Morte, a quell’ignoto che ci attende là, dall’altra parte…

E allora la vera Vita cominciò a fremere tutt’intorno! Come è meraviglioso: il canto degli uccelli al mattino, un raggio di sole che scivola sul muro sopra il letto, le foglie dorate dell’albero che mi salutano dal davanzale, il cielo autunnale d’un azzurro profondo, i rumori della città che si risveglia – il clacson delle auto, il ticchettio dei tacchi frettolosi sull’asfalto, il fruscio delle foglie cadute… Signore, com’è stupenda la Vita! E io lo capivo solo ora…

«E va bene se l’ho capito soltanto adesso», mi dissi, «l’importante è averlo capito. Hai ancora un paio di giorni per godertela e amarla con tutto il cuore!»

Quella sensazione di libertà e felicità chiedeva di manifestarsi e io mi rivolsi a Dio, che in quel momento mi era più vicino di chiunque. — Signore! gioivo. Grazie a Te per avermi dato la possibilità di comprendere quanto sia splendida la Vita e di innamorarmene. Anche se prima di morire, ora so quanto sia meraviglioso vivere!

Ero pervasa da un senso di felice calma, di serenità, di libertà e allo stesso tempo di vertiginosa elevazione. Il mondo vibrava e si vestiva di luce dorata, la luce dell’Amore Divino. Sentivo potenti onde di energia. Sembrava che l’Amore fosse diventato solido, e al tempo stesso soffice e trasparente come un’onda dell’oceano. Riempiva ogni spazio intorno a me; persino l’aria divenne densa, non entrava subito nei polmoni, ma affluiva come un lento flusso pulsante. Tutto ciò che vedevo si illuminava di quell’oro energetico. Amavo. E fu come mescolare la potenza dell’organo di Bach con la melodia ascendente di un violino.


La stanza singola, la diagnosi di «leucemia acuta di quarto stadio» e le condizioni del mio organismo ritenute irreversibili dal medico avevano i loro vantaggi. Ai moribondi era consentito l’accesso a tutti, a qualunque ora. Ai miei familiari fu suggerito di chiamare i parenti per i funerali e, in effetti, in fila arrivarono i congiunti in lutto per l’ultimo saluto. Capivo le loro difficoltà: di cosa parlare con chi sa di stare morendo? Mi divertivo a osservare i loro volti spaesati.

Mi compiacevo: quando mai avrei visto tutti loro ancora insieme? E soprattutto volevo condividere con loro l’amore per la Vita – è possibile non sentirsi felici solo per il fatto di essere vivi? Intrattenevo i parenti e gli amici come potevo: raccontavo barzellette, aneddoti di vita. Tutti, grazie a Dio, ridevano, e il commiato si svolgeva in un’atmosfera di gioia e appagamento. Verso il terzo giorno mi stancai di stare a letto: cominciai a camminare per la stanza, a sedermi alla finestra.

A quel punto arrivò il medico che, visibilmente fuori di sé, mi intimò di non alzarmi. Rimasi sinceramente sorpresa:

— E cambierebbe qualcosa?

— Beh… no, – balbettò lei – ma non puoi camminare.

— Perché?

— Hai esami da cadavere. Non dovresti neppure vivere, eppure ti alzi.

Passarono i quattro giorni che mi erano stati concessi. Io non morivo affatto: mangiavo con appetito salame e banane. Stavo bene. Il medico stava male: non capiva. Gli esami non cambiavano, il sangue colava appena rosa, e io cominciai ad andare nell’atrio a guardare la televisione.

Provavo pietà per lei. Mentre l’Amore reclamava la gioia dei miei compagni di reparto.

— Dottoressa, come vorrebbe che fossero i miei esami?

— Beh, almeno così.

Scrisse in fretta lettere e numeri su un foglietto, i valori che avrebbero dovuto comparire. Non ne compresi il senso, ma lessi con attenzione. Lei mi guardò con compassione, mormorò qualcosa e se ne andò.

Alle nove del mattino tornò in camera urlando:

— Come diavolo hai fatto… gli esami! Sono esattamente quelli che ti ho scritto.

— E io come dovrei saperlo? Sono buoni? Insomma, che importa?

La pacchia finì. Mi trasferirono in una stanza comune (quella in cui ormai non muore più nessuno). I parenti avevano già dato l’ultimo saluto e non tornavano più. Nella stanza c’erano altre cinque donne: giacevano voltate verso il muro e morivano in modo lugubre, silenzioso e convinto. Sopportai tre ore. Il mio Amore stava soffocando. Bisognava fare qualcosa in fretta.

Rotolando fuori da sotto il letto un’anguria, la tirai sul tavolo, la tagliai a fette e annunciai:

— L’anguria allevia la nausea dopo la chemioterapia.

Per tutta la stanza si sparse il profumo di un sorriso rinato. Le altre si avvicinarono al tavolo timidamente.

— Davvero attenua la nausea?

— Sì, – annuii con fare esperto, pensando che chissà… L’anguria scricchiolò succosa.

— È vero, è passato! – disse colei che stava alla finestra e si muoveva con le stampelle.

— Anche a me. Anche a me, – confermarono le altre con gioia.

— Vi racconto un altro episodio a riguardo… e anche una barzelletta?

A due di notte un’infermiera sbirciò in camera e sbottò:

— Quando smettete di ridere? State impedendo a tutto il piano di dormire!

Tre giorni dopo, il medico mi chiese esitante:

— Potreste trasferirvi in un’altra stanza?

— Perché?

— In questa tutti sono migliorati. Nella stanza vicina ci sono casi gravi.

— No! gridarono le mie compagne. Non ti lasciamo andare. – E non mi lasciarono andare.

Intanto i vicini venivano a trovarci: restavano per un po’, chiacchieravano, ridevano. Capivo il perché: in quella stanza viveva l’Amore. Avvolgeva ciascuno con onde dorate, rendendo tutto accogliente e sereno.

Mi piaceva in particolare una ragazza bashkirca di sedici anni con un fazzoletto bianco annodato dietro la nuca: i lembi svolazzanti la facevano sembrare un coniglietto. Aveva un cancro ai linfonodi e mi pareva che non sapesse sorridere. Ma in una settimana vidi il suo timido, incantevole sorriso. Quando annunciò che il farmaco aveva cominciato a fare effetto e che stava guarendo, facemmo festa: imbandimmo una tavola splendida con bottiglie di kumys da cui ci inebriammo, poi passammo a ballare. Il medico di turno, richiamato dal trambusto, ci guardò perplesso e disse:

— Lavoro qui da trent’anni, ma una cosa del genere non l’avevo mai vista. – Si girò e se ne andò. Ridemmo a lungo ripensando alla sua espressione. Era stato fantastico.

Leggevo libri, scrivevo poesie, guardavo fuori dalla finestra, conversavo con le mie compagne, mi aggiravo nei corridoi e amavo ogni cosa che vedevo: i libri, la composta di frutta, le compagne di stanza, l’auto nel cortile, l’albero secolare. Mi facevano punture di vitamine: dopotutto, bisognava pur farmi qualche iniezione.

Il medico quasi non mi parlava, mi guardava di sottecchi e, dopo tre settimane, mi disse sommessamente:

— L’emoglobina è venti unità oltre il valore normale. Non bisogna farla aumentare ulteriormente. – Sembrava ce l’avesse con me. In teoria questo voleva dire che aveva sbagliato diagnosi, ma non poteva essere così, lo sapeva anche lei.

Un giorno si lamentò:

— Non posso confermare la tua diagnosi. Ti stai riprendendo senza cure. È impossibile!

— E qual è allora il mio nuovo diagnosi?

— Non l’ho ancora deciso, rispose sottovoce e se ne andò.

Quando mi dimisero, il medico ammise:

— Peccato che te ne vai, qui abbiamo ancora tanti casi gravi.

Da quella stanza furono dimessi tutti. E nel reparto la mortalità di quel mese si era ridotta del 30%. La Vita andava avanti, ma ora il mio sguardo era diverso: sembrava di osservarla dall’alto, e ne cambiava la prospettiva.

E scoprìi che il senso della vita è semplice e accessibile: basta imparare ad amare. Allora le tue possibilità diventano infinite e i tuoi desideri si realizzano, purché siano nutriti dall’amore, senza ingannare, senza invidiare, senza risentimenti o augurare il male. È un paradosso meraviglioso: così semplice e al tempo stesso così complesso!

Perché è vero: Dio è Amore. Bisogna soltanto ricordarselo in tempo…

© Ljudmila Lamonova

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